di Marzia Albanese
A nove anni è difficile mantenere un segreto. Lo sa bene Matteo, bambino della periferia romana che proprio non ne vuole sapere di togliersi dal viso la maschera del suo beniamino: il wrestler di Corviale detto “Il Tigre”.
Sono giorni che la madre gli dice di buttare via quella maschera che lo fa sembrare “solo un eroe stupido!” e di smetterla con questo assurdo e inutile capriccio. Anche a scuola Matteo inizia a essere visto come uno “strano” da maestri e compagni.
Ma Matteo fa resistenza. Quella maschera la vuole con sé tutto il giorno. In doccia, a scuola, quando pranza, quando esce. E nessuno sembra comprenderne il motivo.
È così che Gabriele Mainetti presenta ai nostri occhi “Tiger Boy”, cortometraggio acclamato dalla critica cinematografica e vincitore di numerosi premi e riconoscimenti.
È un film breve che parla di abuso e delle sue conseguenze più potenti: la colpa e la vergogna. Due delle emozioni centrali in chi è vittima di un evento traumatico come questo.
Parlare di abuso è sempre difficile. Lo è ancora di più se le vittime sono i minori. Eppure, si tratta di un fenomeno piuttosto frequente che presenta inevitabilmente dinamiche diverse rispetto all’abuso sessuale di adulti, poiché implica che una persona approfitti della sua posizione di superiorità e dell’ingenuità del bambino.
Un bambino che, proprio come Matteo, data l’età, la vulnerabilità e l’immaturità psichica si trova così a essere coinvolto in una situazione per cui, non possedendo gli strumenti utili per comprendere pienamente ciò che gli sta accadendo, è impreparato e non riesce allora a intervenire e fronteggiare l’accaduto.
Ogni giorno Matteo con il suo zaino in spalla va a scuola, ma pesa più che per i suoi compagni, perché dentro a quello zaino, sotto ai libri, mette anche un terribile segreto che prende forma proprio lì, in quel luogo che dovrebbe essere fonte protettiva di istruzione e socializzazione ma che diviene invece un ring su cui Matteo subisce la più atroce delle ingiustizie. Un abuso puntuale come il suono della campanella che gli indica di rientrare in classe, mente le parole “non ti devi sentire in colpa Matteo…non dobbiamo sentirci in colpa” gli riecheggiano nella testa, che diviene sempre più bassa e più piena.
Ecco allora che le uniche armi che le mani di Matteo possono impugnare sono ago e filo. Nasce così la sua maschera, la sua utilità.
Intanto Matteo diviene sempre più scontroso in casa: proietta la sua vendetta sui giochi ricreando situazioni di abuso con i suoi pupazzi inermi e la notte dorme su un materasso recintato a mo’ di ring, che lo fa sentire protetto, anche se non abbastanza da impedirgli di svegliarsi urlando in preda agli incubi.
La madre ci prova a entrare nel nuovo mondo di suo figlio, fatto di distanze, ambivalenze e sguardi bassi. Lo abbraccia e quasi non lo riconosce più.
Ma Matteo a quell’affetto materno risponde con aggressività e violenza. Pensa forse di non meritarlo. Spesso infatti, chi subisce un abuso in infanzia, cresce con forti sentimenti di paura, vergogna e colpa, sviluppando la convinzione di essere una persona cattiva che merita maltrattamenti e punizioni. Ed è proprio questa la ragione, più o meno cosciente, che spinge i minori a non denunciare l’abuso, a tenerlo dentro o nasconderlo sotto una maschera, proprio come il protagonista di questa storia.
Ma arriva un giorno nuovo. Un’altra campanella sta per suonare e Matteo, grazie a un pomeriggio passato con il suo beniamino di Corviale, reagisce come gli ha visto fare sul suo ring. Scappa da quella stanza in cui per troppo tempo ha subito quella violenza silenziosa, mostrando a tutti il vero volto del suo aggressore.
Eccolo che corre verso l’uscita Matteo, gettando via la sua preziosa maschera da tigre.
Si è difeso.
Adesso non gli serve più.