di Silvia Timitilli

Prima Parte

Nel lavoro dello psicoterapeuta un elemento centrale è l’umiltà di imparare. Si inizia ad apprendere dai libri, dai corsi di specializzazione, dalle supervisioni, per poi passare alle intervisioni e a corsi di formazione sempre più avanzati. In questa professione è fondamentale essere propensi all’apprendimento e pronti ad imparare da tante fonti e una delle più preziose è rappresentata proprio da quella persona che, con la sua storia, si siede davanti a noi. Impareremo da quella persona e dal viaggio che faremo insieme, viaggio che potrà durare una seduta, qualche mese o qualche anno, ma che, in ogni caso, ha tanto da insegnarci.

Il caso è quello di Filippo, ma ciò che più desidero raccontare è il viaggio fatto con lui e cosa ho imparato durante questo percorso.

L’incontro con Filippo è avvenuto nei primi anni della mia professione. Ricordo ancora il nostro primo colloquio: lui un uomo “adulto”, di tutto punto, ben vestito, curato nell’aspetto, acculturato e con uno sguardo di non facile interpretazione. Io? Una psicoterapeuta alle prime armi, ai suoi occhi molto probabilmente una “ragazzina” a cui qualcuno lo aveva inviato perché quel qualcuno aveva ritenuto che Filippo avesse bisogno di parlare con lei.

All’inizio del colloquio, Filippo sembra ben predisposto a rendermi il lavoro estremamente facile: “Soffro da più di 30 anni di Fobia Sociale”. Una diagnosi chiara e netta. Inizio comunque con le mie domande e i comportamenti che Filippo descrive in risposta sembrano proprio indirizzare verso la conferma di quella diagnosi. Mi colpisce però il modo in cui Filippo li descrive: c’è, allo stesso tempo, dovizia di particolari e un’assoluta asetticità. Filippo descrive anni di sofferenza come un biologo potrebbe descrivere le caratteristiche del tessuto in osservazione sotto il suo microscopio. Non vi è alcun connotato emotivo, nessun segno di emozioni che trapelino neppure dal più piccolo segnale a livello non verbale.

Il “problema” di Filippo è la paura di poter sudare dinnanzi agli altri. Per scongiurare questa eventualità racconta di aver affinato, negli anni, molte strategie: un modo particolare di vestire, con una scelta attenta del tipo di tessuto da indossare (un tessuto che non si aloni e con una preferenza per certi tipi di stampe in grado di celare al meglio qualsiasi segno); un’acconciatura studiata ad arte, con una precisa scelta della lunghezza dei capelli (né troppo corti, altrimenti l’imperlarsi della fronte sarebbe stato facilmente visibile, né troppo lunghi perché altrimenti, una volta bagnati, sarebbe stato altrettanto visibile quanto stava accadendo); una collocazione precisa da assumere all’interno di una stanza (di spalle in controluce rispetto a fonti luminose così da rendere difficoltosa la messa a fuoco della sua figura).

Nonostante queste precauzioni a volte si verificava il peggio e “sudava”. Sempre con quel fare asettico, Filippo racconta di momenti di difficoltà costituiti da monitoraggi incessanti e in tempo reale dei suoi livelli di sudorazione, tentativi di aprire eventuali finestre mettendocisi vicino e sempre più in controluce, tenendo le braccia adese al corpo, fino al sopraggiungere dei momenti peggiori rappresentati dal dover passarsi la mano tra i capelli e dal prendere un fazzoletto per arginare una sudorazione da lui ormai percepita come fuori controllo. L’unico momento di sollievo era quando riusciva, con una qualche scusa, a uscire dalla stanza. Percepiva il sollievo e allo stesso decideva i suoi successivi piani d’azione: avrebbe evitato di rientrare nella stanza e avrebbe ricontattato il proprio psichiatra prima possibile per rivedere la terapia farmacologica che gli aveva prescritto.

Nel susseguirsi degli anni, Filippo aveva imparato a strutturare la sua vita attorno a questo timore o, meglio, più lontano possibile dal suo realizzarsi. Declinava inviti alle cene aziendali o da parte di singoli colleghi e, col tempo, iniziò a declinare sempre di più anche gli inviti da parte di vecchi amici di famiglia e di infanzia. Aveva osservato, con il proseguire degli anni, che questo timore presentava una sorta di andamento annuale: maggiore a settembre, quando riprendeva l’attività lavorativa dell’azienda in cui lavora ormai da 30 anni, iniziava poi a calare verso i primi mesi dell’anno, per infine ridursi con l’avvicinarsi della chiusura dell’azienda ad Agosto, mese durante il quale Filippo si percepiva molto più libero da questo timore. Di riflesso anche l’assunzione dei farmaci seguiva questo andamento: maggiore nei mesi di settembre, fino a scalarli progressivamente e assumerne una dose “minima” nel mese di Agosto.

Tutto procedeva regolarmente da anni, tranne per quell’estate in cui stranamente quel bisogno di riprendere i farmaci era ricomparso prima del dovuto, nelle ultime settimane di Agosto, e oltretutto con un episodio per Filippo a dir poco allarmante visto che questa reazione di sudorazione era stata intensa e assolutamente non prevedibile.

Fino a quel momento del colloquio tutto sembrava scorrere più o meno regolarmente, tranne per quel suo sguardo indecifrabile ma che, mi dicevo, avrei imparato a conoscere. Filippo appariva disponibile e pronto a rispondere alle mie domande. Gli pongo allora una domanda per me fondamentale “Come mai l’eventualità di poter sudare davanti agli altri sarebbe così terribile per lei?”. Qualcosa cambia nell’atteggiamento di Filippo, un’increspatura, e subito Filippo risponde “Ma no, lo so che la sola cosa che devo fare è accettare questa eventualità, il rischio di poter sudare”. “Bene” mi dico tra me e me “ma non mi ha risposto”. Quasi sicuramente l’accettazione del rischio di poter sudare sarà un nostro obiettivo terapeutico e immagino che Filippo abbia già affrontato questo punto con qualcun altro e infatti afferma che questo è un qualcosa che anche il suo psichiatra gli ha detto e che comunque anche lui sapeva già. “La chiave è tutta lì” mi dice e questa volta il suo sguardo mi sembra più decifrabile, ci intravedo una sorta di disprezzo come se si fosse risentito a suo tempo dell’indicazione dello psichiatra, già di per sé scontata ai suoi occhi, e oggi fosse quasi scandalizzato dal trovarsi davanti una che non capiva nemmeno questo, tanto da dovermi fornire lui, da subito, la chiave del nostro lavoro.

Intravedevo, alla fine del nostro primo colloquio, una strada tortuosa la cui destinazione, anche cercando di aguzzare la vista, ancora mi sfuggiva.

Continua…

Illustrazione di Elena Bilotta