di Cristiana Martini e Rosaria Monfregola
Una bambina rannicchiata e mimetizzata tra lunghi fili d’erba – una voce grida il suo nome – l’incipit di The Quiet Girl, un film di straordinaria delicatezza sulla genitorialità e sulle dinamiche di accudimento e attaccamento.
Dall’inizio alla fine lo spettatore è immerso nel bagaglio emotivo di Cait, una bambina di 9 anni, silenziosa ed introversa, che vive in una famiglia numerosa ed estremamente povera. La madre, una donna in attesa dell’ennesimo figlio, stanca e provata dalla conduzione familiare, vorrebbe prendersi cura anche di Cait, non ne ha le forze; il padre, una figura dipendente dal gioco d’azzardo, perde beni e soldi necessari per mandare avanti la famiglia e in fondo “della vagabonda” se ne vuole sbarazzare, anche per sempre.
Cait fa esperienza dell’assenza emotiva e della trascuratezza di entrambi i genitori. Si nasconde in preda alla vergogna quando la madre trova il letto bagnato, abbassa lo sguardo davanti agli occhi sprezzanti del padre e alle angherie delle sorelle. Scappa, si nasconde, resta in silenzio. Non riesce ad esprimere a parole ciò che prova, non le è stato insegnato e nel silenzio di tutti Cait non comprende cosa le accade. Sebbene essere amato, compreso e confortato siano alcuni dei bisogni fondamentali di un bambino, Cait nella sua famiglia non ne fa esperienza. I suoi genitori non percepiscono, non danno senso e dunque non rispondono ai suoi bisogni. Manca la presenza, l’affetto e dunque la sintonia emotiva. Da spettatore attento, tanti sono i comportamenti osservabili, chiari segnali di disagio emotivo: l’enuresi, la lentezza e la difficoltà nella lettura, l’eccessiva introversione, gli allontanamenti da casa.
Tutto è destinato a cambiare quando Cait viene ceduta, in attesa della nascita del fratellino, ad una coppia di lontani parenti che sono felici di prendersi cura di lei per l’estate. Eibhlín e Seàn Kinsella si amano, si sostengono nei momenti difficili, si prendono cura l’uno dell’altro. Per Cait è una dimensione relazionale sconosciuta.
Lo sguardo caldo di Eibhlín e il tono fermo e garbato con cui respinge gli inopportuni avvertimenti del papà della bambina fanno sentire Cait accolta. In questo modo inizia la loro estate, fatta di cura e protezione, tra bagni caldi, insegnamenti in cucina e passeggiate rigeneranti al pozzo, sorgente di ristoro. La fiducia e la cura vengono costruite giorno dopo giorno, conquistate lentamente. Attraverso l’apprendimento mediato da Eibhlín, Cait scopre come prendersi cura di sé, dell’altro e di cosa si prova ad essere accuditi, ad apprezzare semplici cose quotidiane: un sorso di acqua fresca, il fruscio delle foglie, il canto degli uccelli.
Con Seàn la relazione è più difficile. Dapprima la diffidenza di lui sembra tracciare un confine con Cait, quasi una forma di protezione da un legame che può spezzarsi, così come è accaduto anni prima con la morte di suo figlio. Poi, i due, si sintonizzano con la collaborazione di una bambina ormai sicura dell’accudimento e dell’amore dell’altro capace di desiderare e di instaurare un solido legame affettivo, intimo e duraturo.
La relazione è sicura, la bambina prima costretta a vagabondare ora ha il piacere di condividere, gli episodi di enuresi sono risolti, le difficoltà nella lettura superate. Lo sguardo è gentile e sicuro, contraddistinto da teneri sorrisi.
Al rientro a casa Cait trova lo stesso clima familiare ed un fratello in più, ma lei è una bambina cresciuta: ha appreso la cura e l’amore. Il suo giardino interiore è rigoglioso, ricco di ricordi dell’accudimento ricevuto, che porta la bambina a correre liberamente verso i parenti affidatari da cui preferirebbe non separarsi.
Due sistemi familiari agli antipodi di cui il regista mostra differenze, costruendo un gioco magistrale di opposti mediante il comportamento e la comunicazione non verbale dei personaggi, ma anche nella fotografia degli ambienti, il tutto volto ad enfatizzare le conseguenze emotive per la bambina. Ad esempio l’invalidazione di bisogni e l’ascolto di questi, l’inclinazione all’umiliazione e al rifiuto da un lato e la presenza e il conforto dall’altro, ambienti cupi e angusti per la famiglia d’origine e altrettanti luminosi e aperti per la famiglia affidataria.
The Quiet Girl è un film che riesce a mettere in scena in modo articolato l’esperienza dell’accudimento, negato da un lato, prestato dall’altro; una poesia sulla cura, sulla relazione affettiva sicura, capace di accompagnare e sostenere. A volte si trova nelle figure più prossime, talvolta altrove.