di Giuseppe Femia
Un film travolgente che colpisce l’osservatore, si presenta violento: stimola ansia, induce disgusto. Senza alcun preavviso, dopo qualche nota di pianoforte, rapisce lo spettatore, portandolo in una stanza fatta di angosce, paure e adrenalina.
Ti agita e chiede frettolosamente elaborazione psichica. Si sente il trauma che scuote e spaventa, si avverte un costante stato di minaccia e un velo di tristezza travolge la psicologia del fruitore portandolo ad osservare quello che mai vorrebbe osservare: un uomo che mangia un altro uomo, addirittura un familiare che mangia un suo familiare. Nello specifico una madre che cerca di mangiare la figlia nel tentativo di salvarla dalla sua natura disdicevole e sofferente, e ancora un figlio che mangia il padre, godendosi la sua punizione. O ancora una madre che mangia le sue stesse mani per gestire la propria natura cannibale e in ultimo l’amata che mangia il suo amore prima che stia per lasciarla: in fin di vita il compagno di sorte la supplica di cibarsi di lui.
A questi personaggi si unisce un cannibale che gestisce la sua natura aggressiva cercando di rintracciare persone che stanno alla fine della loro vita oppure appena morte allo scopo di non fare il primo predatore: una strategia quasi altruistica.
Una carrellata di simbolismi che non riesci a gestire mentre l’emozione ti scuote, ti travolge dal basso dalle viscere e ti manda in tilt la mente: scene ripugnanti di sangue e aggressione si susseguono, fra figure spaventate e spaventanti, fragili, ma allo stesso tempo cannibali. A tratti lo percepisci come un film ingiusto, troppo cruento, quasi antidemocratico: ti impone violenza, illudendoti con temi di amore e sofferenza romantica. Ti inchioda allo schermo anche quando non vuoi.
Si parla della diversità e della devianza biologica, di quando l’impulso assale e travolge senza limite, quando la pulsione batte e irrefrenabile cerca preda. Eppure, sembra descrivere metaforicamente temi relazionali e familiari che ricorrono e emanano sofferenza da generazione in generazione, delimitando uno strano spazio fra scenari temuti e stati desiderati.
Si svolge tutto seguendo due binari maggiori: ovvero la paura e il desiderio, passando per stazioni di disgusto indotto, senso di colpa morale, giudizio e rabbia.
Un film difficile da integrare, ambizioso e confondente.
Una trama complessa che sbalordisce; a tratti vuoi scappare e non vedere, a tratti vuoi sbirciare, capire, osservare, ma chiudere la porta di un orrore che richiede uno sforzo di empatia e comprensione.
Rappresenta l’amore oltre tutto, e soprattutto quanto l’amore sia cruento, tragico. Parla dell’ambivalenza dell’amore, di come protegga, dia e chieda salvezza e fagociti al contempo. Si sfiorano temi di abbandono, di fragilità psichica, di diversità, aggregazione, isolamento, maltrattamento e identità.
Dall’inizio alla fine un triangolo drammatico perpetuo si manifesta: vittima, salvatore e carnefice sono le tre principali configurazioni che costantemente si muovono nella storia di ogni personaggio proposto, generando in chi lo guarda uno stato di confusione simile ad un qualcosa di traumatico che in modo quasi viscerale si manifesta negli spettatori.