di Claudia Perdighe
Diversi studi confermano che sviluppare un sé compassionevole può aiutare a diminuire l’autocritica e gestire i momenti più difficili in modo più adattivo, con un nuovo soundtrack della nostra giornata. Sabrina Consumati nell’articolo Autocritica e Self-compassion: il confronto e il conforto nel dialogo interiore, affronta questo tema e, nello specifico, come sviluppare abilità compassionevoli verso il sé aiuta a migliorare il modo in cui ci approcciamo alle emozioni difficili perché, anziché combatterle e sviluppare problemi secondari, ci apriamo all’accettazione delle cose per come sono e a cosa possiamo fare per esserci d’aiuto.
La rilevanza di fattori relazionali nella comprensione dell’efficacia terapeutica è uno dei temi più ampiamente condivisi e discussi (in particolare: il grado di alleanza, l’empatia percepita dal terapeuta, la motivazione del paziente, la capacità del terapeuta di adattare il proprio lavoro alle caratteristiche specifiche del singolo paziente, il livello di autenticità del paziente e del terapeuta). Generalmente è assunto come vero che l’aspetto centrale di efficacia terapeutica è la qualità della relazione, un fattore aspecifico quindi. Nel loro articolo La disconnessione come cura: il conflitto di dipendenza nella terapia del trauma complesso, Carolina Papa e Erica Pugliese affrontano in modo più specifico il tema, provando a rispondere alla domanda: come creare una relazione curativa, fatta di vicinanza e sana dipendenza, in pazienti che hanno vissuto traumi complessi, il cui esito principale è proprio la difficoltà a sviluppare relazioni di fiducia e affidamento all’altro?
Decenni di ricerca attestano costantemente che il paziente, il terapeuta, la loro relazione e il metodo di trattamento agiscano di concerto nel determinare l’efficacia della psicoterapia. Questo è il tema che appassiona Ramona Fimiani nel articolo Oltre i modelli di trattamento: i meccanismi di cambiamento in psicoterapia. Il dubbio è: è una risposta utile e sufficiente? La collega illumina il fatto che i risultati delle meta-analisi suggeriscono che una terapia personalizzata sia più efficace che fornire una terapia basata su un manuale di trattamento per uno specifico disturbo: la responsività appropriata rappresenta l’essenza della buona pratica. Dall’altro lato l’idea di poter prescrivere una responsività appropriata contiene in sé un paradosso: valutare post un intervento (per tempo, contesto) è efficace, ma con il paradosso che è difficile specificare in anticipo quali interventi siano giusti. Tale fenomeno è stato nominato “fenomeno Pirsig”: le persone sembrano in grado di giudicare la qualità di molte cose, ma non sono in grado di specificare in generale in cosa consista la qualità. Quale soluzione allora? Una soluzione è offerta da una pratica guidata da una accurata formulazione del caso. “La ricerca ha dimostrato che psicoterapeuti esperti propongono formulazioni del caso parsimoniose, sintetiche e clinicamente rilevanti per il processo e l’esito del trattamento. Tali formulazioni offrono l’opportunità non solo di comprendere l’esperienza soggettiva del paziente ma conseguentemente di prendere decisioni clinicamente appropriate e di personalizzare l’intervento”.
Gaia Natalucci, rimanendo in ambito evolutivo, ci presenta difficoltà nella terapia con bambini adottati, con varie forme di esposizione a traumi e frequenti disturbi dissociativi che, se diagnosticati, sono spesso il primo passo per una buona relazione terapeutica. Benché non esista una terapia “unica” per i problemi presentati dai bambini adottati, nel lavoro Adozione internazionale, trauma e dissociazione: lo Star Model e l’applicazione di tecniche terapeutiche in età evolutiva, viene presentato lo StarModel, che offre un buon modo di considerare sia la valutazione che il trattamento dei sintomi legati al trauma, come la dissociazione.
Il caso di Giorgio Albani, Catia l’ossessiva e la sua rinascita ha diversi aspetti di originalità. Dal mio punto di vista il primo è un tema di confusione sull’orientamento sessuale, che si profila come dubbio ossessivo e che ha alla base una strategia di protezione dal timore di essere abusata, a fronte di un abuso sessuale subito nell’infanzia. Un secondo aspetto interessante è il modo in cui viene descritta la terapia: in modo poco schematico e formale, ma soprattutto con ampi stralci di terapia raccontati con il dialogo tra la paziente e il terapeuta.
Il caso che segue, Alice e il timore dell’umiliazione: “forse ci tiene però…!” di Sabrina Consumati, ha sempre come tema il timore di rendersi vulnerabile se mostra interesse per un uomo, anche se sulla base di esperienze diverse. Quando Alice prova interesse per un uomo, evita di “ammettere” il suo interesse perché questo la metterebbe nella condizione di mostrarsi debole. Mostrarsi debole significa dare potere all’altro di umiliarla e ferirla. Per evitare di essere umiliata, Alice sente di doversi accertare di potersi fidare del tutto dell’altro, che crede però umiliante e non degno di fiducia. La ricerca di questa certezza (mi posso fidare dell’altro) si concretizza nel perseguimento dello scopo di evitare scelte superficiali. Questo la porta a prendere tempo per valutare le “reali intenzioni” dell’altro: “se ti rifiuto e tu insisti e vai oltre i miei paletti, allora ci tieni.” Il suo prendere tempo e rimanere affettivamente e fisicamente distante fa però allontanare l’altro, cosa che conferma il timore che l’altro possa non essere sinceramente interessato, nonché di essere una persona che, non generando “vero interesse” nell’altro, non ha valore (inadeguata, non amabile).
Carolina Papa e Erika Pugliese presentano Il caso Alice: un caso di trauma complesso. Alice è una donna che ha subito abusi sessuali perpetrati nel tempo per mano del padre e che giunge in psicoterapia a seguito del lutto improvviso e traumatico della sua migliore amica. Il profilo interno viene concettualizzato attraverso il Modello Cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche, che si focalizza su come le esperienze precoci avverse possono portare allo sviluppo di diverse parti patologiche a partire dai bisogni insoddisfatti di amore, dignità e sicurezza. Tutto il funzionamento della paziente è regolato dal principale antiscopo di non perdere la relazione con un altro abusante: le diverse parti patologiche si attivano sempre al mantenimento della relazione con le figure di accudimento, fino ad arrivare allo stato misto nel quale la paziente mette in atto gesti anticonservativi.
Il lavoro di Ramona Fimiani, Il caso di Eva: una solitudine popolata di presenze interne ostili, descrive il caso di una ragazza di 20 anni di origini brasiliane che giunge in consultazione a seguito di una segnalazione per un problema di rifiuto scolare. Ha alle spalle un percorso accademico complesso contrassegnato da ripetuti fallimenti, non ha relazioni amicali o sentimentali, evita tutte situazioni sociali e trascorre gran parte del suo tempo da sola nella sua stanza. La sua condizione di solitudine è il sintomo di un ambiente familiare trascurante e invalidante, incapace di cogliere i suoi segnali di sofferenza. Eva crede di meritare profondamente la sua condizione, lo stigma e il rifiuto altrui. Il perimetro della sua stanza rappresenta, quindi, una trincea contro un mondo percepito come profondamente ostile e l’ottundimento emotivo come una fuga psicologica da una sofferenza intollerabile. Il trattamento ha rappresentato l’opportunità per Eva per costruire una relazione intima, emotivamente correttiva delle esperienze dolorose del passato.
Il numero si conclude con un caso piuttosto raro da documentare, dal momento che si tratta di disturbo da accumulo, patologia molto diffusa (tra il 3-5% della popolazione secondo le stime) ma difficilmente trattata; è un disturbo spesso egosintonico, difficilmente diagnosticato anche dai sanitari e con rare richieste di psicoterapia. Il caso del signor N. e dei suoi “inseparabili” oggetti è un caso clinico davvero esemplificativo del disturbo da accumulo (per esempio le fasi di peggioramento sono la malattia e poi la morte della moglie), ma soprattutto la descrizione di una terapia straordinariamente efficace. Giorgio Albani, infatti, seguendo sia una formulazione del disturbo sia un percorso altamente individualizzato, ci descrive un percorso che porterà il paziente a liberare gradualmente gli spazi occupati dall’accumulo e a recuperare risorse economiche.