Un modello cognitivo-comportamentale del Disturbo Post-Traumatico da Stress

Il trauma, oltre a effetti fisiologici e neurobiologici, sia associa a distorsioni cognitive e comportamenti maladattativi (Solomon e Heide 2005). Da qui l’importanza di modelli cognitivi e comportamentali del DPTS.

Nell’ambito del modello cognitivo del DPTS, alcune teorie postulano un conflitto con credenze preesistenti, ossia un’esperienza traumatica può svelare che quegli assunti di base riguardo se stessi e il mondo, che normalmente forniscono struttura e significato alla vita della persona facendo da sfondo ad aspettative, comportamento e giudizio (es., identità, visione del mondo, sicurezza, stima, potere, indipendenza, etc.), sono sbagliati, insufficienti o inadeguati. Gli assunti patogeni (es., vulnerabilità, sfiducia, senso di impotenza) possono in seguito sostituirsi ai precedenti assunti e generalizzarsi a molte aree di vita (Shalev 2001). Questo favorisce lo sviluppo dei sintomi di intrusività, evitamento e iperarousal del DPTS. Dopo un evento traumatico il sistema cognitivo cerca di elaborare le informazioni ad esso associate e non ancora integrate e continua a valutarle incompatibili e minacciose per il modello schematico del sé e del mondo. Questa continua valutazione nella memoria fa sì che la persona sperimenti una costante attivazione e riattivazione del “modulo paura”. Le persone traumatizzate sperimentano una sensazione continua di essere in pericolo, le valutazioni delle informazioni legate al trauma irrompono nella coscienza in modi diversi, dal pensiero intrusivo agli incubi. Inoltre la presenza nell’ambiente di stimoli ricollegabili al trauma vengono elaborati in modo selettivo e nella memoria attivano le informazioni correlate al trauma, favorendo la comparsa di fenomeni intrusivi. Conseguentemente, l’individuo mette in atto meccanismi difensivi, tra cui l’evitamento di stimoli che ricordano il trauma (Yule 2000).

 Il modello comportamentale sostiene che i sintomi del DPTS derivano dagli effetti combinati di processi di condizionamento classico e operante (teoria bifattoriale di Mowrer e modello del doppio-condizionamento, il dual-conditioning model, di Keane et al., 1985). In base al condizionamento classico, all’esposizione all’evento traumatico (stimolo incondizionato) la persona reagisce con paura e uno stato di elevato arousal (risposta incondizionata), e in seguito continua a mostrare la stessa risposta (risposta condizionata) quando esposta a stimoli (neutri) che ha associato all’evento traumatico (stimoli condizionati). Normalmente, con il passare del tempo l’ansia condizionata si estingue se l’individuo si espone allo stimolo condizionato in assenza di pericoli, poiché egli apprende una nuova associazione, cioè che lo stimolo condizionato non segnala una situazione di pericolo. Tuttavia, la normale estinzione della paura condizionata può essere ostacolata da un processo di condizionamento operante, come accade nel DPTS. Se la persona mette in atto comportamenti di evitamento, non avviene un’esposizione allo stimolo condizionato in assenza di stimoli negativi abbastanza prolungata da consentire l’apprendimento della nuova associazione e l’estinzione della paura condizionata. I comportamenti di evitamento tendono a ripetersi in quanto permettono di evitare l’ansia, ossia sono rinforzati negativamente. Le riduzioni di angoscia e tensione compensano l’evitamento di diversi stimoli interni ed esterni che sono vagamente associati al trauma. Tale evitamento compensato impedisce l’estinzione della risposta condizionata nel corso del tempo e determina la generalizzazione del comportamento evitante (Shalev 2001; Connor e Butterfield 2003).

Un limite del modello comportamentale è l’incapacità di spiegare la comparsa spontanea dei ricordi angoscianti del trauma (come incubi e flashback), lo stato di allarme permanente e le eccessive reazioni di trasalimento tipici del DPTS. Foa e Rothbaum (1989) hanno perciò proposto un modello cognitivo-comportamentale che prevede un’integrazione tra proposizioni significanti e condizionamento: nello sviluppo del DPTS un ruolo centrale sarebbe svolto non solo dal condizionamento, ma anche dalla percezione di controllabilità e prevedibilità di un paziente (e i conseguenti attributi di minaccia) (Shalev 2001).

Nell’ambito di questo approccio, Carlson (2005) ha sviluppato un modello teorico per comprendere e spiegare gli effetti delle esperienze traumatiche, prendendo in considerazione (1) gli elementi che rendono un’esperienza traumatica, (2) le risposte psicologiche all’evento e (3) le ragioni del persistere dei sintomi dopo la conclusione dell’esperienza traumatica.

Il primo punto è stato sviluppato nel tentativo di spiegare il motivo per cui un evento potenzialmente traumatico evoca una risposta traumatica soltanto in certe persone e non in altre. La definizione del DSM IV di evento “traumatico” risulta riduttiva, in quanto: non è stato empiricamente dimostrato che eventi che non comportano il rischio di morte o ferite non abbiano effetti traumatici, vs. emergono sempre più prove del fatto che simili eventi possono essere stressor traumatici; inoltre, la persona, al momento del trauma, può fare esperienza di una “dissociazione peri-traumatica” (es., depersonalizzazione, derealizzazione, vuoti di coscienza), che, se è molto intensa, può portare ad escludere le risposte emozionali. Il modello sviluppato da Carlson, individua tre caratteristiche che definiscono un evento “traumatico”: la mancanza di controllabilità, la valenza negativa e la repentinità (dati confermati anche da altre ricerche, Kira 2001).

L’autore rileva che esistono prove a sostegno dell’identificazione della percezione di non controllabilità come un fattore causale importante nelle reazioni a un trauma. “La ricerca ha dimostrato che le persone e gli animali sono vittime dello stress quando non possono controllare quello che sta loro accadendo, soprattutto se si tratta di esperienze dolorose” (Carlson 2005). Tra i riscontri clinici ed empirici vi sono le seguenti osservazioni. “Le persone traumatizzate spesso sono molto disturbate dal fatto di non aver potuto fare nulla per controllare quello che stava accadendo e riferiscono frequenti pensieri fastidiosi del tipo “Se soltanto…”, “E se…?”. Inoltre, i sopravvissuti a traumi “convinti di poter avere in futuro il controllo su eventi simili spesso hanno sintomi psicologici meno numerosi e di intensità inferiore”. Va sottolineato che perché un evento sia traumatico, la sua non controllabilità deve raggiungere una certa soglia, che varia a seconda delle persone (in quanto dipende dalle esperienze personali e dalle aspettative di controllabilità) e del grado di negatività degli eventi (minore è la valenza negativa dell’evento, maggiore è il grado di incontrollabilità che si riesce a tollerare).

Il secondo elemento che secondo Carlson rende traumatiche certe esperienze è la percezione soggettiva di una loro valenza molto negativa perché provocano o potrebbero causare lesioni o dolore fisico o sofferenza psicologica (in quest’ultimo caso la valenza negativa è connessa al significato psicologico che l’evento ha per l’individuo, per es. di minaccia all’idea di sé). A supporto di questa concezione vi è la prospettiva evoluzionistica: la paura è un’emozione funzionale alla sopravvivenza in quanto porta ad evitare le situazioni potenzialmente pericolose. Una conferma all’ipotesi che il dolore psicologico (ossia eventi che non comportano una minaccia di lesioni fisiche o morte) rientri fra i possibili agenti causali nella traumatizzazione viene dalla ricerca e dalla clinica, che ha evidenziato come  anche eventi improvvisi e incontrollabili, dolorosi solo sul piano psicologico, possono provocare gravi reazioni post-traumatiche. E’ importante notare che la valenza negativa di un evento, per essere traumatica, deve raggiungere una certa soglia, che varia a seconda della persona e del tipo di trauma.

Il terzo elemento che rende traumatica un’esperienza è la sua repentinità. “Gli eventi che comportano una sofferenza fisica o psicologica imminente hanno una maggiore probabilità di scatenare terrore”, in quanto la persona non ha la “possibilità di proteggersi o di prepararsi psicologicamente alle conseguenze”. Quando, invece, le esperienze negative avvengono gradualmente e in modo incrementale, l’individuo ha la possibilità di “adattarsi cognitivamente ed emozionalmente a questi cambiamenti modificando poco alla volta i propri schemi riguardo a sé e al mondo” (Carlson 2005)..

Carlson individua risposte primarie (essenziali) ai traumi e risposte secondarie (correlate). Le risposte primarie al trauma comprendono le manifestazioni cognitive, affettive, comportamentali e fisiologiche di ripetizione dell’esperienza e di esitamento (vedi Figura 1).

Il persistere dei sintomi di ripetizione ed evitamento è spiegato tramite i modelli dell’apprendimento classico e operante, e le teorie cognitive. Foa e Kozak (1986), per esempio, hanno osservato che le percezioni e le aspettative dell’individuo al momento del trauma mediano la reazione, in quanto determinano la valenza dell’esperienza e la percezione di controllabilità/incontrollabilità. Da esse dipende anche quali stimoli ambientali diventeranno degli stimoli condizionati (es., la razza). “Inoltre, le persone che hanno subito diversi traumi sviluppano delle reti cognitive per l’elaborazione degli indizi di pericolo che le inducono a interpretare come minacce una grande varietà di stimoli”, in quanto le risposte ad ogni trauma “si combinano per creare un modello di risposta ancora più complesso” (Ibidem).

Le differenze individuali nelle risposte agli stressor traumatici, ossia il fatto che alcune persone sviluppano disturbi post-traumatici e altre no, e che in persone diverse predominano sintomi differenti, sono dovute all’influenza di vari fattori pre-, peri- e post-traumatici, raggruppabili in cinque principali gruppi: i fattori biologici, il livello di sviluppo al momento del trauma, la gravità del trauma, il contesto sociale prima e dopo il trauma, le circostanze stressanti precedenti e successive al trauma. Questi fattori condizionano la percezione della valenza, dell’incontrollabilità e della repentinità dell’evento, e possono sia esacerbare sia mitigare la risposta individuale a un’esperienza potenzialmente traumatica (vedi i fattori di vulnerabilità e di rischio).

 

 

Sintomi di ripetizione dell’esperienza

Sintomi di esitamento

Livello cognitivo

Pensieri intrusivi, immagini mentali, incubi, flashback, vuoti di coscienza, distorsioni percettive.

Tentativo consapevole di non pensare all’evento e a tutto ciò che è collegato, amnesia, derealizzazione, depersonalizzazione.

Livello affettivo

Ansia, rabbia (emozioni che riflettono lo stato d’animo vissuto al momento del trauma: la paura e l’ansia possono essere aspetti della risposta di fuga, la rabbia della risposta di lotta difensiva), appiattimento affettivo (quando la reazione al trauma è una risposta di congelamento).

Appiattimento emozionale (la persona evita ogni emozione forte), isolamento dell’affetto (la persona  descrive l’evento traumatico senza dare segni di emozione).

Livello comporta-mentale

Comportamenti simili a quelli messi in atto al momento del trauma, come l’agitazione, l’attività intensa, l’aggressività difensiva (fisica o verbale).

Tentativi di evitare luoghi, attività o persone che evocano il trauma.

 

Livello fisiologico

Attivazione autonomica e sensazioni fisiche, come ipervigilanza, risposte di trasalimento esagerate, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, analgesia (quando la risposta al trauma è stata di congelamento con ottundimento delle sensazioni fisiche).

Analgesia, ottundimento sensoriale (può essere funzionale ad evitare sensazioni negative associate al trauma).

 

Figura 1. Classificazione dei sintomi di Carlson

L’ultima parte del modello di Carlson prende in considerazione le risposte secondarie e associate al trauma, ossia quelle risposte non causate direttamente dall’esperienza traumatica”, bensì dai “problemi di ripetizione dell’esperienza e di evitamento (r. secondarie), e dall’ambiente sociale o altre circostanze che accompagnano o seguono il trauma (r. associate). Questi sintomi sono molto influenzati dalle percezioni soggettive individuali riguardo all’evento traumatico e alle sue circostanze; i più comuni sono:

§  la depressione: il modello basato sulla teoria dell’impotenza appresa di Seligman (1975) afferma che “la convinzione di non poter controllare ciò che influisce sulla propria vita può portare alla depressione. Quando una persona subisce circostanze negative e dolorose senza poterle controllare, impara che i suoi tentativi di proteggersi da ciò che le può nuocere non sono utili, e così smette di provare a fare qualcosa per il proprio bene. […] Inoltre, la componente cognitiva dell’impotenza appresa è un fattore critico per l’insorgenza e il perdurare della depressione. A volte le persone che hanno subito un trauma continuano a sentirsi impotenti anche se hanno già riacquisito da tempo un certo controllo” (Carlson, 2005, p. 151);

§  l’abuso di sostanze, a cui la persona può ricorrere “come a una cura o per controllare i sintomi intrusivi o l’eccesso di attivazione”;

§  le malattie fisiche, che possono essere sintomi secondari in quanto: “lo stress cronico può sfociare nella malattia”, per es. in seguito ad un’attivazione fisiologica eccessiva e/o cronica; “lo stress connesso ai traumi può indebolire la funzione immunitaria”; l’esperienza traumatica può indurre la persona a comportamenti più pericolosi;

§  il calo di autostima conseguente, per es., alle difficoltà lavorative e sociali dovute a sintomi d’ansia e depressivi;

§  i disturbi dell’identità, per es. “confusione circa la propria identità, sensazione di essere in balia di una forza esterna, confusione riguardo ai propri desideri o scopi personali”. I problemi di identità possono essere provocati anche dai sintomi dissociativi di depersonalizzazione e amnesia: la persona può sentirsi “irreale, distaccata da sé o priva di controllo sul proprio comportamento”, che “combinati con l’incapacità di rievocare certi aspetti dell’esperienza traumatica, possono interferire con la percezione di sé e la memoria autobiografica”;

§  i comportamenti aggressivi, che possono essere un sintomo secondario al “senso di frustrazione per i sintomi traumatici primari” o “una risposta associata al trauma derivante da esperienze di apprendimento sociale, condizionamento classico o operante”;

§  relazioni interpersonali problematiche, in seguito a sintomi quali “paura, rabbia, comportamenti aggressivi, appiattimento affettivo, evitamento sociale”;

§  il senso di colpa e la vergogna, per es.: la persona traumatizzata “si sente responsabile del male subito da altri al momento del trauma” o per il fatto di essere sopravvissuta quando altri invece sono morti; a volte si vergogna di come si è comportata al momento del trauma  (Carlson 2005).