L’approccio cognitivo-comportamentale alla balbuzie
I principi di base sono quelli della terapia operante con l’integrazione degli aspetti cognitivi. Nei primi anni di vita vi sono disfluenze spontanee che scompaiono successivamente. Se il bambino, di fronte alle sue normali disfluenze, viene punito, inizierà a provare ansia. Infatti, i bambini reagiscono con ansia alle disapprovazioni dei genitori e trasferiscono poi la carica ansiogena al parlare. Da qui l’associazione tra il dialogo e l’ansia, per paura della disapprovazione, che accompagnerà l’individuo.
La paura di balbettare porta a una costante attenzione sul come si deve dire che nel soggetto balbuziente è di gran lunga più importante del cosa dire. Si innesca così il circolo vizioso dell’eccesso di controllo.
Il mantenimento del disturbo è spiegato dal condizionamento operante.
Questo paradigma di apprendimento sottolinea l’importanza degli effetti del comportamento sull’ambiente. “Quali sono i vantaggi della balbuzie?”, verrebbe da chiedersi. Innanzitutto il balbuziente attira l’attenzione, e spesso viene addirittura aiutato a terminare la parola o la frase. Frequentemente l’interlocutore adotta questo comportamento per “togliersi da una situazione imbarazzante”, ma così facendo rinforza il processo.
Un rinforzo secondario importante della balbuzie è l’evitamento delle responsabilità.
Spesso chi balbetta non viene interrogato a scuola, e viene agevolato perché per molti insegnanti è penoso e imbarazzante ascoltare un balbuziente che parla. La balbuzie diventa così una scusa per non affrontare le incombenze e per delegarle agli altri anche nell’età adulta. Non dimentichiamo poi che il sollievo dall’ansia è un altro importante effetto positivo della balbuzie che sopraggiunge quando il balbuziente è riuscito finalmente a pronunciare la parola temuta. La persona con balbuzie sa benissimo su quali parole balbetterà e più si avvicina al pronunciarle, più aumenta l’ansia di non riuscire. Quando finalmente, pur balbettando, è riuscita a dire la parola “critica”, ottiene un potente rinforzo. Il calo di tensione mantiene tutto il processo.
L’assessment nell’ottica cognitivo-comportamentale
L’assessment è molto simile a quello della terapia operante, il principale lavoro iniziale sta nel condurre l’analisi funzionale del problema (che si effettua identificando gli antecedenti, ossia le situazioni che elicitano la balbuzie, il tipo di disturbo, e le conseguenze che esso produce sugli altri; non a caso il balbuziente quando è solo parla f1uentemente.
Durante la conversazione, che viene registrata, il paziente sa che verranno monitorati gli episodi di balbuzie.
Sempre insieme al paziente verrà costruito il grafico con in ascissa i minuti di conversazione e in ordinata gli episodi di balbuzie, questo sarà utile anche come automonitoraggio del paziente durante la terapia. Se possibile, può dare maggiori informazioni l’utilizzo del biofeedback, soprattutto in età evolutiva, dove le informazioni verbali potrebbero essere molto ridotte.
Riguardo alle situazioni o variabili, Shames ed Egolf (1976) suggeriscono di considerare le seguenti: numero di persone; tempo; lunghezza del discorso; ruoli delle persone che ascoltano.
Sempre in fase di assessment è opportuno indagare insieme al paziente la reale volontà al cambiamento perché spesso l’atteggiamento verso la guarigione è ambivalente: da un lato il paziente vorrebbe parlare bene e liberarsi per sempre dalla balbuzie, dall’ altro ha paura di non avere più la scusa per atteggiarsi a vittima e quindi evitare le responsabilità.
Alla luce di queste considerazioni, è basilare nella terapia della balbuzie agire sull’autostima dei pazienti, perché l’innalzamento dell’autostima permetterà di vincere la paura di non avere più la scusa per non affrontare la vita.
Il trattamento
Nella terapia degli adulti, il trattamento è dato dalla combinazione di più tecniche che tengono conto delle varie aree problematiche. Soltanto con un approccio terapeutico completo e articolato, la balbuzie può essere eliminata o ridotta e la fluenza mantenuta nel tempo.
La terapia ha come obiettivi: eliminare o ridurre la balbuzie, proporre una tecnica di rilassamento per la gestione dell’ ansia, aiutare il paziente ad affrontare le situazioni temute anziché continuare a evitarle, analizzare i pensieri negativi o irrazionali del paziente e sostituirli con pensieri razionali (l’ansia è alimentata da pensieri negativi che la persona, in modo automatico, produce su di sé e sulle situazioni che incontra), aiutare il paziente a comunicare in modo assertivo, insegnare tecniche per aumentare la stima di sé, rendere il paziente consapevole delle emozioni e aiutarlo a gestirle.
Il trattamento può essere così schematizzato:
§ tecniche di respirazione e tecniche di instaurazione della f1uenza;
§ rilassamento;
§ desensibilizzazione sistematica;
§ terapia cognitiva;
§ training assertivo;
§ trattamento dei tic, qualora siano presenti.
È necessario che il paziente sia informato di ogni passo del programma terapeutico, che diventi parte attiva del suo cambiamento, e che accetti di fare sedute di un’ ora e mezza e di effettuare anche delle sessioni nella vita reale. La fluenza, infatti, dallo studio si deve trasferire nelle situazioni quotidiane, in cui il paziente deve essere guidato ad affrontare eventi e responsabilità evitate per anni.
Alla fine di ogni seduta, è opportuno programmare quello che verrà effettuato nella seduta successiva e stabilire i compiti, che verranno poi esaminati all’inizio della seduta successiva per valutare i miglioramenti.
Nei casi di balbuzie più grave, in cui la guarigione è impossibile, si dovrà lavorare sull’accettazione del miglioramento ottenuto da parte del paziente.
L’apprendimento delle tecniche di instaurazione della fluenza
Innanzitutto è importante insegnare al balbuziente una corretta respirazione. Infatti, l’alterazione dei movimenti respiratori è costante, anche se variabile da caso a caso, e interessa soprattutto gli impulsi espiratori. In genere, l’inspirazione è brusca, l’espirazione è invece rapida, per cui il soggetto è costretto a parlare con l’aria residua, fenomeno alquanto penoso per il senso di mancanza o fame di aria. Il fenomeno respiratorio va considerato soltanto come un sintomo: infatti non è presente quando il soggetto tace o quando parla da solo.
Un altro importante fattore da considerare è che la laringe del balbuziente presenta movimenti bruschi e resta fissata con contrattura e incoordinazione dei muscoli prelaringei. Alla laringoscopia si può osservare, infatti, una maggiore prevalenza dei muscoli abduttori sugli adduttori..
Per regolarizzare la respirazione e favorire lo sblocco dei muscoli prelaringei, si insegna al paziente che, quando sta per pronunciare la parola critica, deve inspirare profondamente, pensare alla parola e pronunciarla in fase espiratoria. Questa tecnica (Ryan, 1974) dovrà essere appresa dal paziente e messa in atto a ogni inizio di inceppamento; si compone delle seguenti fasi:
§ inspirazione profonda;
§ anticipazione cognitiva della frase;
§ esposizione in fase espiratoria.
È importante far esercitare molto il paziente che tende a perseverare nella condotta sbagliata, ossia espirare bruscamente e, senza più aria a disposizione, rimanere bloccato sulla parola critica.
Dopo aver fatto un certo numero di esercizi su questo, si introduce la tecnica del time-out (Costello, 1975), che consiste nel far parlare il soggetto per un tempo stabilito (si parte da 5 minuti e gradualmente si aumenta fino ad arrivare a 25-30) su un argomento precedentemente concordato. Durante il monologo, il paziente deve mettere in pratica la tecnica precedente. Se non lo fa, dopo ogni episodio di balbuzie, è bloccato dal terapeuta con la parola «stop», e deve rimanere in silenzio per 10 secondi, durante i quali il terapeuta distoglie lo sguardo da lui; poi, a un cenno del terapeuta, deve ripetere la parola espirando. La pausa di l0 secondi permette di eliminare due potenti rinforzi: l’attenzione del terapeuta, che distoglie lo sguardo, e la riduzione dell’ansia dopo l’episodio di balbuzie, in quanto è stato bloccato.
Con il progredire delle sedute si aumenta il numero dei minuti del monologo del paziente. È consigliabile partire da argomenti neutri fino ad arrivare a quelli più coinvolgenti dal punto di vista emotivo. I grafici vengono sempre costruiti assieme al paziente alla fine della registrazione. La soddisfazione del paziente per i progressi ottenuti funge da rinforzo e mantiene alta la motivazione. Quando il paziente è sufficientemente sicuro, si può passare alla fase di time-out autogestito, nel senso che il paziente, da solo, si blocca dopo ogni episodio di balbuzie, mantiene la pausa dei l0 secondi e autonomamente ripete la parola critica.
Quando la fluenza è quasi raggiunta, si diminuisce gradualmente la pausa dei 10 secondi fino a eliminarla. Dopo il successo ottenuto in studio si prepara la seconda parte della terapia: quella delle uscite nella vita quotidiana con il paziente.
Contemporaneamente alle tecniche di instaurazione della fluenza, si insegna al paziente una tecnica di rilassamento.
Il rilassamento
Essendo il paziente balbuziente molto ansioso, è importantissimo insegnargli una tecnica che gli permetta di acquisire il controllo dell’ansia. Oltre ad aiutarlo nella gestione delle situazioni critiche, essa permetterà poi di applicare la desensibilizzazione sistematica, che è la tecnica successiva, senza la quale non si può aiutare il soggetto ad affrontare le situazioni ansiogene. Le tecniche di rilassamento possono essere:
§ il training autogeno di Schulz;
§ il rilassamento progressivo di Jacobson;
§ il rilassamento preipnotico.
La desensibilizzazione sistematica
Per eliminare ansie e paure specifiche che, di solito, accompagnano il disturbo, si usa la tecnica della desensibilizzazione sistematica, dapprima in immaginazione e poi in vivo. I recenti studi effettuati sul cervello hanno dimostrato che l’emisfero destro non distingue la realtà dalla fantasia e che, quindi, anche al solo pensiero di affrontare una situazione temuta, si innesca il meccanismo dell’ansia. Inoltre, è stato dimostrato che la persona che teme una certa situazione tende a evitarla, mantenendo in tal modo la paura e la fobia. Il comportamento di evitamento è cruciale nel mantenimento della fobia. Si arriva anche a evitare di pensare alla situazione temuta, perché anche il solo pensiero, come ho già spiegato, determina la risposta d’ansia. Il paziente elenca le situazioni per lui ansiogene e assieme al terapeuta costruisce una gerarchia in cui le situazioni stesse sono ordinate dalla meno alla più ansiogena. La costruzione della gerarchia è un punto molto importante della desensibilizzazione sistematica, perché una gerarchia sbagliata può compromettere il buon esito della procedura.
Come strumenti per favorire la costruzione della stessa, possono essere usati il termometro dell’ansia e il biofeedbaek.
Con l’utilizzo del primo, si chiede al paziente di valutare l’ansia evocata dalla situazione secondo una scala da 0 a 10, in cui lo 0 sta a indicare assenza di ansia e il 10 il massimo dell’ansia. Sicuramente più attendibile è il biofeedback, in cui si riesce a monitorare con più certezza il livello d’ansia.
In seguito o parallelamente alla costruzione della gerarchia, il paziente è addestrato al training di rilassamento di Jacobson (o a un altro training). Quando il paziente ha acquisito una buona capacità di rilassarsi, gli si fa immaginare la situazione meno ansiogena della gerarchia e il paziente deve sostituire all’ansia, provata nella situazione, il rilassamento appreso, secondo il principio del controcondizionamento. Anche in questo caso, il biofeedback può essere utilissimo per monitorare il livello di rilassamento raggiunto in quel particolare gradino della gerarchia, per poi passare al livello successivo. La procedura viene ripetuta fino a esaurire tutte le situazioni della gerarchia. Successivamente si fa affrontare al paziente la situazione temuta nella realtà e lo si incoraggia a continuare a farlo, poiché non basta una volta sola, ma bisogna insistere fino a creare una nuova abitudine più adattiva.
Si costruiscono tante gerarchie quante sono le situazioni temute dal paziente, come ad esempio parlare al telefono, chiedere informazioni per strada, ordinare al bar o al ristorante in presenza di estranei, ecc.
Il paziente deve affrontare più volte la situazione nella realtà e, assieme a lui, si programmano delle sedute fuori dallo studio in cui lo si accompagnerà al bar. In definitiva, con questa procedura si aiuta il paziente a trasferire nelle situazioni quotidiane la f1uenza acquisita nello studio e ad affrontare – anziché evitare – le situazioni temute e, di conseguenza, le proprie responsabilità.
La terapia cognitiva
Il paziente balbuziente ha una serie di idee, convinzioni e modi di pensare che contribuiscono a mantenere il suo disturbo, il suo disagio e la sua sofferenza.
Al paziente deve essere spiegato che sentimenti, emozioni e comportamento possono essere influenzati negativamente da particolari forme di ragionamento errato che prendono il nome di distorsioni cognitive. È quindi necessario correggere il nostro programma mentale, il modo sbagliato di vedere il mondo, per migliorare il nostro stato d’animo.
Ellis (1993) ha dimostrato che le persone ansiose e depresse, o comunque con una bassa autostima, hanno nel loro dialogo interno le seguenti idee irrazionali che devono essere confutate e sostituite con altre più razionali e realistiche, e che si analizzano assieme al paziente.
· Bisogna essere amati, approvati e accettati da tutti.
· Bisogna essere sempre all’altezza delle situazioni per considerarsi degni di valore. Non si può sbagliare.
· Il passato e il carattere sono come un marchio indelebile.
· Chi fa soffrire gli altri sarà punito.
Oltre a queste idee irrazionali, attraverso l’educazione e la cultura di appartenenza vengono assorbiti anche altre idee e modi di pensare errati che, come ho già detto, vengono definiti distorsioni cognitive e causano difficoltà, ansia e depressione.
Assieme al paziente queste distorsioni cognitive devono essere comprese e sostituite con modi più idonei di pensare. A questo scopo il terapeuta fornisce al balbuziente la scheda ABC.
Dopo aver discusso con il paziente sulle distorsioni cognitive, si fornisce lo schema per la riflessione sui pensieri negativi, le distorsioni cognitive e i pensieri positivi.
Una volta individuati i pensieri negativi e le distorsioni cognitive sottostanti, è importante imparare a metterli in discussione.
La prima interpretazione che di solito viene data di un evento potrebbe non essere quella corretta. Purtroppo spesso non siamo flessibili e non solo pensiamo che la prima interpretazione sia quella giusta, ma spesso non pensiamo nemmeno che potrebbero essercene delle altre. Questo accade perché siamo stati educati non alla flessibilità, ma alla rigidità di pensiero. Una volta appreso, questo modo rigido di pensare diventa difficile da sradicare. Purtroppo, però la prima interpretazione di un evento è spesso la più errata. Perciò è necessario imparare a sospendere il giudizio finché non si saranno ottenute maggiori informazioni e, di conseguenza, la situazione verrà percepita in modo più obiettivo. Assieme al paziente si concorda di affrontare a questo punto un altro importante passo del trattamento: il training assertivo.
Il training assertivo
Si spiega al paziente che per comportamento assertivo o assertività si intende non l’ostinato atteggiamento di chi vuole ottenere a tutti i costi ciò che vuole, ma la decisa volontà di far valere i propri diritti, esprimere le proprie opinioni, sentimenti e desideri quando lo si ritenga opportuno, in modo chiaro, sincero, diretto, appropriato e rispettoso senza violare i diritti del proprio interlocutore. Il comportamento assertivo si basa sul rispetto di sé e dell’altro, sulla considerazione dei propri bisogni e sulla possibilità di negoziare in caso di conflitto.
Nei rapporti interpersonali, invece, il balbuziente oscilla tra due atteggiamenti opposti: la passività o compiacenza e l’aggressività.
Partendo dal presupposto che nemmeno i fratelli la pensano allo stesso modo, pur avendo la stessa famiglia, è inevitabile che in qualsiasi rapporto prima o poi sorgano delle divergenze e si renda quindi necessario esprimere il proprio punto di vista. La persona passiva non esprime le sue opinioni e i suoi bisogni e non difende i suoi diritti perché ha paura di incrinare il rapporto con l’altro, di sembrare cattiva o egoista o di far soffrire l’altro. Può anche arrivare a esprimere le sue critiche, ma lo fa in modo poco chiaro e incisivo per cui difficilmente viene presa in considerazione. In questo modo, fornisce agli altri l’opportunità di approfittarsi di lei. La sua eccessiva compiacenza la porta a subire troppo, fino a che, non potendone più, può interrompere bruscamente la sua relazione interpersonale oppure può esplodere diventando aggressiva.
È aggressiva, invece, la persona che esprime i suoi diritti, bisogni e critiche in modo inappropriato, attaccando, opprimendo, colpevolizzando o umiliando l’interlocutore. Il comportamento aggressivo può essere una reazione all’ eccessiva compiacenza oppure un tentativo di dominare l’altro. In tutti i casi, la persona aggressiva rovina irrimediabilmente i suoi rapporti e si sente spesso in colpa per quello che ha detto o fatto durante il suo scoppio d’ira. Si parla di «sindrome del pendolo» quando una persona passa da una di queste modalità comportamentali all’ altra. La persona può essere prevalentemente passiva o prevalentemente aggressiva, oppure può essere aggressiva con alcune persone e compiacente con altre.
Per diventare assertivi, è importante saper distinguere tra quelli che sono i diritti degli altri e i loro desideri o aspettative: non è giusto ledere i diritti degli altri, ma non è neanche giusto andare contro se stessi per soddisfare i desideri altrui.
Oltre a fare degli esempi generici o tratti dalla vita del paziente, è spesso importante fare il role-playing delle situazioni più frequenti nella sua vita per fargli identificare gli errori nella comunicazione non verbale e verbale per poi strutturare attivamente il cambiamento, insegnando le abilità assertive.
Dopo aver discusso su queste premesse con giochi di ruolo e situazioni frequenti nella vita del paziente che gli creano ansia e disagio, si individuano le modalità comportamentali errate e le convinzioni irrazionali che le sostengono. Si presentano poi al paziente e si esaminano con lui le abilità assertive, che sono:
· come esprimere gli elogi;
· come riceverli;
· come esprimere i propri desideri;
· come disarmare la collera;
· come proteggersi dall’aggressività e dalla prepotenza altrui;
· come fare una critica;
· come ricevere una critica.
Il trattamento dei tic
Esistono vari disturbi del sistema muscolo-scheletrico che si manifestano attraverso risposte motorie disfunzionali come i tic. Generalmente non si trova un riscontro organico a questi disturbi. Il tic è spesso invalidante per il paziente al punto che influisce sulle attività quotidiane. È inoltre molto imbarazzante e, spesso, il paziente arriva a limitare i suoi contatti sociali.
Secondo Azrin e Nunn (1973), il tic è mantenuto anche dal rinforzo sociale
costituito dall’attenzione da parte degli altri.
Il trattamento parte dal presupposto che il tic è un’abitudine appresa che ha raggiunto la sua massima intensità nell’abitudine. È possibile perciò estinguere l’abitudine, costruendone un’altra negativa o incompatibile con il tic, e lo si può fare attraverso la tecnica chiamata pratica massi va o negativa (Hersen e Eisler, 1973), che consiste nella ripetizione dei tic nel modo più accurato possibile, senza pause, durante un periodo stabilito. I movimenti che costituiscono il tic all’inizio sono usati volontariamente per riuscire a superare lo spasmo tonico o clonico della balbuzie. Essi successivamente finiscono per diventare obbligati e involontari, assumendo la configurazione del tic. Inoltre, questi movimenti hanno lo scopo di deviare l’attenzione dalla parola, con conseguente riduzione della tensione. La procedura è la seguente:
· si pone il paziente davanti allo specchio con il compito di ripetere il tic, il più accuratamente possibile, per 5 minuti;
· si passa poi alla ripetizione del tic per 10 minuti;
· si procede alla ripetizione accurata del tic senza pause per 15 minuti;
· progressivamente, si aumentano i tempi fino al massimo di 45 minuti.
Questa procedura dovrà poi essere ripetuta con gli eventuali altri tic del paziente. In questo modo verrà eliminato un tic alla volta.
Il presupposto di questa efficace tecnica è che con la ripetizione estenuante del tic si otterranno due grandi vantaggi:
· si instaurerà l’abitudine negativa di non produrre il tic, incompatibile con quella positiva di produrlo;
· il tic cesserà di essere rinforzato perché essendo l’ansia del paziente intermittente, non sarà accompagnata da una risoluzione della pulsione e dagli effetti secondari.
Verrà così interrotto il meccanismo che mantiene tutto il processo.
È opportuno, comunque, spiegare al paziente l’intero procedimento e l’utilità di questa tecnica, dicendogli che, sapendo in partenza la parola su cui si balbetterà, si diventa tesi e l’aumento di tensione favorisce la balbuzie. Il movimento che la persona fa in quel momento e che le permette di superare la situazione critica riduce la tensione e distrae momentaneamente la persona facendole dire la parola “critica”. Questo processo favorirà il mantenimento del tic nel tempo rendendolo automatico.
La procedura della pratica massiva permette di eliminare tutte le conseguenze positive del tic, e inoltre, producendo fastidio, noia, tensione e a volte anche dolore, creerà un’abitudine a non produrlo più.
Un’altra tecnica per eliminare il tic è quella di Azrin e Nunn (1973) basata sul controcondizionamento. In questa procedura, il pattern di comportamento disadattivo viene sostituito da un atto motorio con esso incompatibile. Lo scopo principale di questa strategia è incrementare una risposta fisicamente competitiva che interferisce con quella acquisita mediante il tic e, parallelamente, rinforzare i gruppi di muscoli antagonisti atrofizzati per il disuso. Inoltre, il paziente acquisisce la consapevolezza dei comportamenti motori disadattivi che sono diventati automatici.
La tecnica comprende:
a. una procedura di descrizione della risposta in cui il paziente descrive dettagliatamente i movimenti che costituiscono il tic, guardandosi allo specchio;
b. una procedura di identificazione della risposta in cui al paziente viene insegnato a identificare e controllare ogni parte del movimento disadattivo;
c. una procedura di allarme in cui il paziente identifica il movimento iniziale della catena motoria;
d. una pratica della risposta competitiva nella quale si insegna al paziente a tendere per breve tempo i muscoli incompatibili con quelli del tic, impedendone la manifestazione stessa.
Le risposte motorie competitive e incompatibili con il tic devono essere poco appariscenti, in modo da non interferire con la vita normale del paziente, e devono essere ripetute per circa 3 minuti ogni volta che si manifesta lo stimolo iniziale del tic. In questo trattamento vengono coinvolti anche i familiari del soggetto in modo da rinforzare la nuova abitudine appresa.