di Marzia Albanese
È una tarda sera di marzo del 1960 a New York. In un bar affollato un uomo siede da solo, davanti a un tavolo. Lo osserviamo di spalle scrivere frettolosamente sul tovagliolo che ha davanti, vicino al suo Old Fashion. Cerca di trovare, con tutte le sue forze, un’idea che sia speciale.
L’uomo è Donald Draper, direttore creativo e cavallo di punta della più potente agenzia pubblicitaria di Madison Avenue, al quale è stata affidata l’ennesima sfida da dover superare: curare la campagna pubblicitaria del famoso marchio di sigarette Lucky Strike, nonostante le recenti ricerche a favore dei danni provocati dal fumo le rendano letali per l’opinione pubblica.
Ma del resto, chi può riuscire a vendere addirittura la morte se non Don Draper?
Lo guardiamo per pochi attimi quest’uomo destinato a diventare, ad oggi, uno dei personaggi più complessi della serialità televisiva, e già ci convince, con i suoi gesti decisi, la sua ironia dalla voce scura e lo sguardo dritto negli occhi dell’interlocutore che compare sullo schermo.
Bastano pochi secondi e ne siamo già convinti: Don ce la farà.
È questo il potere di Donald. Convincere tutti di essere il migliore e…esserlo davvero.
Eppure, c’è qualcosa che non torna. Ben presto iniziamo a chiederci quasi ossessivamente se tutto ciò che vediamo sia reale o se, come il titolo che abbiamo visto scorrere solo pochi fotogrammi prima, sia invece “Smoke Gets in Your Eyes”. Perché l’uomo che abbiamo conosciuto seduto al bar, è lo stesso che dopo ogni successo e conquista, chiude bruscamente la porta dello studio alle sue spalle, lasciando tutti fuori, mentre versa con la mano del Whisky in un bicchiere sempre più pieno, con gli occhi persi nel vuoto.
Perché? Di che altro ha bisogno un uomo che ha già tutto?
Ecco allora che il cinico e affascinante protagonista di Mad Man, acclamata serie tv americana che vanta un fan d’eccezione come Barack Obama e diversi Golden Globe, diventa emblematico riflesso del Disturbo Narcisistico di Personalità, facendoci assistere all’incessante ricerca di ciò che manca riproponendo la propria ferita infantile.
Nonostante infatti il narcisismo venga ormai comunemente utilizzato con una connotazione esclusivamente negativa che ha a che fare con una personalità vanitosa ed egocentrica e trattato con l’ingenua convinzione di dover essere smascherato per prevenirne i danni a chi ne è vittima, occhi clinici non possono che chiedersi: chi è la vittima del narcisista se non il narcisista stesso?
Come Donald Draper ci mostrerà attraverso ricorrenti flashback nel corso di sette bellissime stagioni televisive, dietro l’uomo imperturbabile e tenebroso si cela il fantasma di un bambino di cui è diverso addirittura il nome, tanto è inaccettabile la sua fragilità.
Questo bambino è Dick Whitman, figlio di una prostituta con cui il padre, povero proprietario di una fattoria, passò una breve notte. Abbandonato per questo dalla matrigna in un bordello, Dick vive in condizioni di assoluta povertà non solo economica, ma soprattutto affettiva, crescendo nell’assoluta noncuranza dei propri bisogni e nel più totale neglect emotivo. Il piccolo, subisce continue umiliazioni e maltrattamenti fisici e psicologici che lo aspettano, per l’intera vita, dietro ogni traguardo raggiunto facendolo ripiombare in un profondo stato di vergogna e suscitando il timore di essere “scoperto” nella sua vera essenza: quella di bambino fragile, solo, vulnerabile alla continua e disperata ricerca di affetto e accettazione.
Ecco allora che Dick, crescendo, preferisce perseverare in un’esistenza falsa per sfuggire alla più intima esperienza di sé stesso, attraverso la creazione di un’identità fittizia, quella di Donald Draper e costruendo un mondo opposto, soprattutto nelle pubblicità che crea e che lasciano tutti a bocca aperta portandolo al successo: tavole imbandite, famiglie felici, sorrisi plastici.
Esattamente tutto quello che Dick non ha mai avuto, come a confermargli che l’apprezzamento può passare solo per quello che non è.
Il vuoto e la solitudine che ne derivano, nonostante il continuo ricorso autocurativo all’alcool, nascono però dalla consapevolezza, sempre più evidente, di come l’approvazione che riceve non sia mai indirizzata alla sua personalità più intima, bensì alla maschera che ha deciso di indossare rimanendo intrappolato, in balia di un circolo vizioso che appare inarrestabile, nella sua stessa artificialità.
Ma un giorno qualcosa cambia. È durante la presentazione della sua idea pubblicitaria per il grande colosso della cioccolata Hershey, che Don svela a tutti la sua ferita narcisistica, offrendoci un episodio televisivo carico di emotività che non casualmente ha il titolo di “In Care Of”.
“Il rapporto del marchio Hershey con l’America è talmente positivo che tutti abbiamo almeno un aneddoto da raccontare.
La maggior parte delle storie risalgono all’infanzia.
A me ricorda mio padre, che mi portava al supermercato dopo aver seminato e mi diceva “scegli quello che vuoi, qualunque cosa!”
Ce ne erano tante, ma io sceglievo la cioccolata Hershey. La confezione era troppo accattivante e mentre la scartavo mio padre mi scompigliava i capelli e da allora il suo amore e il cioccolato sono legati.
Hershey è l’espressione dell’affetto, è il simbolo dell’amore dell’infanzia”.
Ma in risposta all’osservazione di uno dei suoi ascoltatori rispetto all’essere stato un ragazzino fortunato, le mani di quell’uomo spavaldo e sicuro che abbiamo ormai imparato a conoscere nelle sue più intime paure, iniziano a tremare e la sua corazza, finalmente, cede:
“Io voglio dirvi una cosa perché dopo averla detta, non so più se vi rivedrò.
Io sono un orfano cresciuto in Pensilvenia in un bordello.
Avevo letto di Hershey e della sua scuola su qualche giornaletto che le ragazze lasciavano nel bagno. Dicevano che alcuni orfani lì avevano una vita migliore. Me la immaginavo: lì forse mi avrebbero voluto.
Perché la donna che era costretta a tirarmi su mi guardava ogni giorno e desiderava solo che sparissi.
L’unica che mi faceva sentire in qualche modo utile era una ragazza che mi faceva frugare nelle tasche dei suoi clienti mentre erano a letto. Se raccoglievo più di un dollaro mi dava una barretta Hershey e io la mangiavo da solo, nella mia stanza, come fosse una cerimonia.
E mi sentivo un bambino normale.
C’era scritta la parola “dolce” sul pacchetto.
Era l’unica cosa dolce della mia vita.”
Sarà proprio da questo momento che Don prenderà per mano Dick e, portandolo lontano dalla ricchezza e dal successo raggiunto, dalle donne che continuamente si alternano e sovrappongono nella sua vita, dalla sfarzosa e immensa casa di New York, inizierà un doloroso viaggio dentro se stesso, alla scoperta della sua vulnerabilità, sino ad arrivare un giorno a riconoscersi, durante la puntata “Person to Person”, proprio in un uomo completamente opposto a lui. Un uomo che si definisce “insignificante”, che non ha mai avuto successo nella vita, né è mai stato interessante per qualcuno:
“Io sono Leonard.
Ho fatto un sogno in cui sono sul ripiano di un frigorifero. Qualcuno chiude la porta e le luci si spengono e io so che sono tutti lì a mangiare.
Poi riaprono la porta e io li vedo sorridere e sono felici di vedermi…ma forse non stanno guardando me.
E non mi sceglieranno.
Poi la porta si chiude di nuovo.
Le luci si spengono.”
In mezzo a molti, Don si alza e lo stringe in un lungo abbraccio.
Sta abbracciando sé stesso.