Prima parte
All’arrivo presso lo studio Obasi è silenzioso. Nell’accoglierlo sull’uscio del centro mi presento insieme al mediatore e gli mostro la pistola di plastica che stringo tra le mani. È per misurare la temperatura. Vorrei rassicuralo. So che molte persone come Obasi hanno visto troppo da vicino armi vere.
Obasi ha 24 anni e viene dall’Africa Occidentale. Attualmente è un richiedente asilo in attesa di ricorso. Viene inviato presso lo studio dagli operatori del Centro di Accoglienza in cui è accolto a causa delle sue continue richieste di ricovero in ospedale nonostante le rassicurazioni mediche circa il suo stato di salute, nonostante le quali ripete continuamente loro “Io non respiro più, aiutatemi!”
Si accomoda. Non occupa tutto lo spazio della sedia. Lo sguardo è basso, gli occhi tristi.
Gli chiedo cosa lo preoccupa così visibilmente.
Il silenzio si rompe. Adesso Obasi è un fiume di parole in piena, una diga esplosa. Parla del non essere creduto e compreso da nessuno e mi descrive brutte sensazioni fisiche in cui avverte un blocco nello stomaco che non gli permette di respirare. Elenca visite mediche, tira fuori dal suo zaino scucito una decina di certificati: parlano tutti di arrivi e dimissioni. Tutto sembra dire a gran voce: “stai bene, non hai nulla.”
Obasi non ci sta. “Nessuno mi crede! Io sto male! Non riesco più a respirare!”.
Chiedo al paziente di descrivermi questa sensazione, indicarmi dove e come la avverte nel suo corpo e descrivermi quando ha avuto inizio.
Obasi ha contratto il Covid-19 nell’aprile del presente anno, scoperto dopo aver avuto febbre alta e difficoltà respiratorie e a causa del quale viene ricoverato presso l’ospedale più vicino al suo Centro di Accoglienza.
Stabilizzato, viene dimesso e, al rientro nel Centro, isolato all’interno di una stanza appositamente adibita a tale emergenza, fa il suo periodo di quarantena con altri tre ragazzi affetti da coronavirus.
“È stato terribile!” “ero rinchiuso! Mi passavano solo acqua, cibo e medicine da dietro una porta!” “e io non respiravo. La notte non riuscivo a dormire” “non volevo essere lì, con quegli altri ragazzi” “mi sentivo soffocare”.
È così che Obasi ha iniziato a non mangiare, a non dormire. A passare quelle giornate alla ricerca del silenzio più totale. Frequenti le liti con i ragazzi con cui costretto a dividere la stanza, impegnati in attività fortuite che potessero far passare più in fretta il tempo tra quelle quattro mura.
Ma quel tempo per Obasi non esisteva. Non c’era più. Non sapeva se tutto sarebbe finito, se sarebbe tornato a stare bene, a “essere quello di prima. Forte e indipendente!”.
E questa preoccupazione rimane, anche quando guarisce, quando i medici gli dicono con un sorriso che sta meglio e gli certificano la guarigione rassicurandolo che il pericolo è passato ed è tutto come prima.
E invece proprio in questo momento le crisi respiratorie sembrano aumentare.
Ed è tutta qui la sofferenza di Obasi, nel percepirsi ormai “fratturato” “irreparabile” e perdere, di conseguenza la sua indipendenza e autonomia.
Essere forte e indipendente è del resto sempre stato fondamentale per Obasi. Mi racconta infatti di un’infanzia da orfano, durante la quale, viene portato da una donna del villaggio in una Scuola Coranica per poter avere un tetto sotto al quale vivere.
Gli chiedo come è stato, conoscendo la dura e triste realtà di molte scuole coraniche in cui i bambini vengono spesso sottoposti a dure punizioni e maltrattamenti fisici, ma “tutto bene” risponde vagamente Obasi e aggiunge “era la mia unica vera casa”.
Penso alle storie spesso ascoltate dai nostri pazienti, di come questo a volte basti a tirar giù bocconi amari e come questi bocconi restino però sullo stomaco, difficili in realtà da digerire.
Il colloquio prosegue, Obasi inizia a manifestare difficoltà nel parlare a causa del respiro che inizia a mancare. È un’occasione preziosa per poter toccare con mano, insieme, il disagio che lo ha portato qui oggi. Gli chiedo allora di focalizzarsi su questa sensazione: “quando l’hai sentita per la prima volta?”
Obasi abbassa la testa e, dopo qualche minuto di silenzio, senza alzarla dice: “sono stato chiuso sotto la barca durante il mio viaggio migratorio in mare perché non avevo abbastanza soldi per essere sopra insieme agli altri che ne avevano di più. Non sapevo cosa ne sarebbe stato di me. Eravamo tantissimi e mancava l’aria. Le persone intorno a me iniziavano a morire, pian piano, durante il viaggio. Ho iniziato a urlare, a sbattere sul “soffitto” con tutte le mie forze per salire su. Mi mancava l’aria, urlavo “non riesco a respirare!” ma nessuno rispondeva…”
Lo fermo. Voglio evitare che acceda a memorie traumatiche troppo dolorose che potrebbero portarlo a fughe dissociative. Non è questo il momento della terapia per approfondire i suoi eventuali vissuti traumatici.
Il tempo della seduta sta finendo. Rimando a Obasi l’apparente analogia tra quanto appena raccontato e il suo problema attuale e di come questo abbia trovato terreno fertile con l’esperienza di isolamento e chiusura dovuta alla contrazione del coronavirus. E come, di conseguenza, il suo scopo di forza e indipendenza nato probabilmente da un’infanzia di stenti e auto-accudimento sia stato nuovamente minacciato.
In un intervento di psicoeducazione e normalizzazione, spiego a Obasi come spesso chi ha vissuto eventi di vita particolarmente dolorosi che hanno messo in pericolo la propria o altrui incolumità possa trovarsi a riviverli anche dopo diverso tempo a partire da cose apparentemente molto lontane e diverse, ma che in realtà, proprio come in questo caso, ne condividono la natura.
Invito allora Obasi, ancora preoccupato delle sue difficoltà respiratorie del momento, a mettere la mano sulla pancia insieme a me, osservarla attentamente e guardarne i movimenti. Lo invito a utilizzare i movimenti di quella mano come riferimento, come messaggio dell’aria che entra e che esce dal suo corpo con le seguenti istruzioni: “se si muove allora vuol dire che stiamo respirando, se invece rimane ferma qualcosa non va.”
Osserva la sua mano cullata dal ritmo della pancia che si riempie e svuota di aria. Si rassicura. Il viso si distende, ma poi, mi guarda stupito: “allora perché sento lo stesso di non respirare?”
“perché non è l’aria che non arriva, sono i ricordi. E allora il corpo unisce le due cose, il passato e il presente. Ed è per questo che ci occuperemo di entrambi.”
Ritorno a spiegare al paziente che il nostro corpo ha memoria e che spesso, quando qualcosa è stata molto dolorosa può capitare che il corpo memorizzi le sensazioni provate in quel momento e le riattivi ogni volta che qualcosa di simile ci accade.
Invito Obasi a mettere la mano sulla pancia ogni volta che la sensazione arriva, per tornare al tempo presente e osservare che oggi, invece, la sua mano si muove: “Sarà il nostro piccolo trucchetto, per adesso“.
Sorride, ringrazia me e il mediatore e dopo aver fissato il colloquio successivo ci salutiamo.
Mentre sale le scale, lo vediamo portare una mano al portone e una alla pancia.
Continua…
illustrazione di Elena Bilotta