di Antonella Bernaudo
Mi trovavo al mare, quando attraversai questo racconto per la prima volta. Perché è più di attraversare che di leggere, che si parla.
Lo scenario era perfetto. Le onde, inconfondibilmente, mormoravano il loro fragore. Il sole era alto e cocente. Era ancora estate piena. Ogni pagina del racconto era intessuta con la precedente. Ed esortava l’esplorazione della successiva. Un riverbero profondo accompagnava le facciate. Nessun bisogno – come quello di proseguire la lettura – poteva in quegli istanti rivelarsi più incombente. Solo al termine della lettura, però, riuscii a comprendere che – esattamente quello – era il filo rosso del racconto.
Natalina teneva le fila di Giuseppe Femia, psicologo e psicoterapeuta, è una storia intessuta di storie. Il lettore navigante vive un’esperienza intensa. È catturato in profondità. Proprio come il terapeuta del libro, è portato ad esplorare il percorso. È spinto a sperimentare, attraversare, ricomporre. Nessuna bussola lo accompagna.
Immergersi nelle pagine di Natalina è infatti come navigare il mare aperto. Si avanza. Si retrocede. Si rallenta. La mareggiata – alle volte – è eminente. Travolge il mascone. Si infiltra tra le draglie. Il timone sembra non essere orientato. Le onde sanno essere violente e spietate. Percuotono l’autore navigante. Lo conducono con prepotenza sulla battigia. Altre volte – tuttavia – riescono a cullare. Anzi, sono le uniche capaci di lenire un dolore avvallato, nascosto, soffocato.
Nel moto fluttuante dei fogli imbarcati, si affaccia – irrequieto – il lutto dell’autore, che strilla, scalpitando, il suo sforzo di elaborazione. La rabbia proclama risposte per la tormentata ingiustizia. Il dolore si trasforma soltanto a poco a poco. Una fluttuante malinconia diventa lo sfondo. L’ira si converte. Trasforma in tristezza i suoi connotati. L’autore navigante, allora, insegue irrequieto le memorie positive. Esse sono salienti. Egli le adopera per elaborare. Non è dimenticare il suo scopo desiderato.
Chi ha subìto una perdita penosa, molto sovente, compie questo faticoso sforzo. I contorni dell’esistenza deprivata appaiono sfumati. Il percorso è sbiadito. L’unico orientamento possibile è volto ad un’auspicabile ricerca di senso. Collera e sfiducia scambiano spesso il turno. Disorientamento e confusione gridano un appello angoscioso. Lo stato di disperazione appare inconsolabile. La fallita accettazione dell’ineluttabilità della mancanza non diviene altro che un ostinato tentativo di riavvolgere all’indietro il nastro.
È pertanto una navigazione impetuosa, quella che fa compiere Natalina. Intensa, ma salvifica. Funesta, ma liberatoria. Vorticosa, ma catartica. Spinge ad attraversare. L’andamento della traversata è graduale. Richiede ricostruzione e adattamento. L’integrazione dell’assenza di chi non è esistente diviene indispensabile. Questo tumultuoso transitare accompagna, dunque, il passaggio. Trasporta verso una riorganizzazione. E, a poco a poco, convoglia il navigante ad accettare tutte le trasformazioni che la morte – irrimediabilmente – trasporta nel transito.
La storia di Natalina è una storia nelle storie. Sboccia da un borgo antico. Dove gli aromi sono annosi. Dove i suoni sono immersi in un rumoroso cicalare. E – nel leggere – la traiettoria del natante avanza ed indietreggia. Il ponte dell’imbarcazione barcolla tra presente e passato. I nodi del marinaio si sbrogliano a fatica. Il pulpito di prua è l’unico appiglio per l’autore navigante.
I fragorosi passi della protagonista riescono ad emozionare intimamente. Liberano l’autore da una storia inconsapevolmente respinta. Tratteggiano il potere curativo dello scrivere. Un processo che mitiga e riorganizza. Un fluire che stempera. Una navigazione che allevia un’angoscia che rischia di incastrarsi nel silenzio. Nelle pagine di questo racconto, le riflessioni sulla scrittura e sui racconti di psicoterapia si interconnettono – incessanti – nell’indifferibile ricerca di una traiettoria di senso.
Fra le storie di psicoterapia, fitte sono le trame tra accaduto e corrente. Nel fluire, cruciale diventa il tema delle memorie. Quelle memorie connesse all’assenza. Quelle memorie di contatto ed esistenza. Entrambe, nell’elaborazione della sofferenza, si rivelano essenziali.
Il racconto si schiude dal trascorso dell’autore. Dona senso alla sua esperienza e alle storie raccontate nello spazio di psicoterapia. Natalina è – insieme – protagonista e scenario. È grazie a lei che l’autore riesce a placare la mareggiata, a narrare la sua gravosa ricerca di significato. Il suo percorso è travagliato. La sua navigazione è colma di impetuose burrasche.
La protagonista sgomita – impellente – tra le storie. Come impellente ed improrogabile è il bisogno dell’autore di navigare: scrivere è l’unica traiettoria che può salvarlo nel mare aperto. Perché scrivere scompone, mitiga, dissolve la nebbia. E poi espande, restringe, calma. Ed ancora, riattiva inquietudini, accende apprensione, dona fermento. Risolve e scompiglia. Scompagina e scioglie. Riporta a galla i reperti sconfessati. Si erge tra le convulsioni abituali.
Gli occhi emozionati, i battiti tumultuosi, le angosce soverchianti – grazie allo scrivere – diventano una storia possibile.
Gli stampati di Natalina affrontano, altresì – ondeggianti – le complessità del setting psicoterapeutico. I temi ossessivi di colpa fanno rumore, spietatamente. L’inquietudine, impaziente ed irrequieta, maschera una tristezza che si mostra trasparente. Le angosce paranoidi si avvicendano tra derisione e danneggiamento. Le convinzioni e gli schemi generati nel passato sono intrecciati alle esperienze e alle memorie salienti. Gli anti-scopi cristallizzano la sofferenza ed immobilizzano l’angoscia in un clamore strozzato. Tutta la navigazione si intesse in un impetuoso ondeggiare.
Il bisogno dell’autore di raccontare la propria storia di perdita, ed intrecciarla ad altre storie, non è rinviabile. Appare indifferibile, improcrastinabile. Come il vigoroso grido di Natalina. La natura del mare – difatti – è irruenta. Le onde sono veementi. Le fluttuazioni scuotono anche le emozioni più soffocate. Rifuggire quel bisogno così urgente si rivela una condanna senza appello. Assecondarlo con la narrazione è l’unica via transitabile.
Sarà proprio in questo mareggiare che il lettore navigante potrà riconoscersi. Sarà in questo molleggiare che potrà rispecchiarsi e trovare un senso, a sua volta. E se invece non se ne dovesse ritrovare, potrà navigare per percorsi nuovi, densi di sorprese inaspettate. Un po’ come se veleggiasse su un’imbarcazione sussultante, ma sempre ancorata alla battigia da un filo rosso, immutabile ed eterno.