di Marzia Albanese

Nel 2018 Sky Atlantic ci regala un piccolo gioiello cinematografico: la miniserie britannica “Patrick Melrose” tratta dai romanzi autobiografici di Edward St Aubyn in cui, per dirlo con le parole del New York Times, siamo catapultati in “un’aristocratica atmosfera di caustico orrore” grazie a quello che è stato definito “un capolavoro del XXI secolo”.

Benedict Cumberbatch riveste magistralmente i complessi panni del protagonista Patrick Melrose, un uomo dell’aristocrazia inglese impegnato tenacemente a porre fine alla sua esistenza abusando di alcol e droga nella New York degli anni 80 nascondendo le sue braccia malandate sotto un lungo cappotto elegante e stupendosi, ad ogni risveglio sotto la luce del sole, di essere ancora vivo: “e il sole sorgeva di nuovo, non avendo alternative.”

Sarà proprio questa strana ambivalenza a farci chiedere sin da subito: perché? Cosa è successo nella vita di Patrick?

La curiosità sul suo passato aumenta quando un caro amico di famiglia lo informa della morte del padre alla quale farà seguito una reazione inaspettata che appare agli occhi dello spettatore e spettatrice poco congrua con quella che il titolo della puntata stessa ci suggerisce essere “una cattiva notizia”.

Durante il viaggio per prendere le ceneri del padre inizieremo a capire progressivamente il suo strano comportamento. Il giovane Patrick ci presta infatti i suoi occhi per viaggiare, proprio come lui, su un arco temporale frammentato in costante bilico tra un presente scivoloso e sempre più difficile da afferrare e un passato ingombrante che invece è sempre così tangibile tanto da irrompere con continui flashback davanti a stimoli scatenanti che pian piano, nel corso della storia, vediamo essere collegati al suo traumatico “segreto”: una lucertola sul muro, una porta che si chiude, attraversare un lungo e stretto corridoio, il sedersi o sdraiarsi su un letto.

Tuttavia, pur non conoscendo ancora il terribile “segreto” del protagonista, quello che vediamo scorrere sul piccolo schermo appare sin da subito un chiaro e clinicamente accurato ritratto del disturbo da stress post-traumatico complesso (cPTSD), una risposta psicopatologica che compare nei sopravvissuti a eventi traumatici multipli e di natura interpersonale che si ripetono in modo prolungato nel tempo a cui la vittima non può sottrarsi (Herman, 1992).

L’effetto di un trauma complesso può determinare, oltre ai sintomi del disturbo da stress post-traumatico semplice (PTSD), deficit nella regolazione emotiva, problemi relazionali, impulsività, somatizzazioni e dissociazione.

Ad ogni riattivazione della rete traumatica di Patrick seguono infatti i più disparati tentativi di evitamento: l’abuso di alcool e droghe, alberghi sempre nuovi, avventure sessuali, sintomi dissociativi. Ma niente sembra riuscire a zittire quella voce nella testa che continua a fare le veci di suo padre, sottolineando il fallimento di ogni tentativo di sopravvivenza “lo sai già come funziona: è come non riuscire ad alzarsi da una sedia a rotelle mentre la stanza brucia!” o condivisione “se per caso racconterai quello che è successo, io ti spezzerò in due, Patrick.”

Quello che è successo ci verrà però crudamente svelato nella puntata interamente dedicata all’infanzia del piccolo Patrick e che ha un titolo emblematico: “non importa”. E mentre la guardiamo, non possiamo che chiederci come possono non importare i ripetuti abusi sessuali da parte di un sadico padre? O, ancora, il silenzio di una madre incapace di intervenire, troppo occupata a salvare sé stessa da un marito abusante e sprezzante attraverso l’abuso di alcool?

Ma la sofferenza del piccolo Patrick risponde anche a tali quesiti: non importa perché a nessuno è mai importato. Questo è quello che ha imparato in quegli anni sviluppando un’idea di sé come indegno di qualsiasi forma di visibilità, amore, affetto, vicinanza, aiuto.

Spesso come clinici e cliniche siamo concentrati e concentrate sull’esplorazione degli eventi di vita avversi che le persone che seguiamo nelle nostre stanze di terapia hanno affrontato durante la loro vita, indagando gli effetti delle violenze, degli abusi e dei traumi che hanno minacciato la loro sopravvivenza.

Ma cosa accade se, accanto a tutto questo, il trauma è legato alla trascuratezza? O se, come nel caso di Patrick, la trascuratezza non riguarda soltanto la mancanza di cure, protezione e attenzione in generale ma riguarda tutto questo davanti a un evento traumatico come l’abuso sessuale da parte dell’altro genitore?

Ecco allora che il trauma “da omissione” necessita della stessa attenzione clinica.

Proprio a testimonianza di questo, Patrick Melrose rimane incastrato in una continua e spasmodica ricerca di una salvatrice, così come non è stata in grado di essere sua madre, pregando ogni donna di restargli vicino a qualsiasi prezzo e a qualsiasi costo, rendendosi però allo stesso tempo “distruttivo” e “intollerabile” per testarne il livello di vicinanza e dimostrarsi, in fondo, che nessuna donna è disposta a rimanergli accanto e a prendersi cura di lui.

Esemplare è il momento in cui chiede ad una donna di non lasciarlo solo dopo una terribile serata caratterizzata dalla continua intrusione della voce paterna, e altrettanto eloquente la risposta di lei mentre se ne va: “ma tu non sei mai solo”.

Eh già, come la voce paterna gli ricorda subito: “ha ragione. Non sei solo. E mai lo sarai” elencando, tutto ciò che insieme alla sua voce continua a tenergli compagnia: “Morte e distruzione. Vergogna e violenza. Ingovernabile vergogna e violenza.”

La presenza di voci nelle persone con trauma complesso è del resto un sintomo molto più frequente di quanto si pensi (Maggiora & Aragona, 2021; Anketell et al.,2010; Crompton et al., 2017; Sprock & Braff, 1996) e riflette la parte che imita il carnefice la cui caratteristica principale è il sequestro di vere e proprie capacità, competenze e risorse di altre parti del sé dell’individuo che vengono tenute in ostaggio riproponendo interiormente la stessa dinamica interpersonale di abuso sperimentata (Steele, Boon e van der Hart, 2017).

Questo rende ancora più difficili i tentativi di Patrick di fuggire dal suo passato e dal bagaglio ereditato fino a quando, nell’ultima puntata, troverà la chiave per il suo “lieto fine” grazie a un turbolento percorso di psicoterapia e alla saggezza che solo i bambini riescono ad avere:

si può anche cambiare idea, se ne hai una di scorta” gli dice un giorno il piccolo figlio, intuendo che il padre sta per fare, nuovamente, una scelta autodistruttiva.

Ecco allora che quelle parole fanno in qualche modo breccia dentro di lui. Uno strano senso di fiducia e di speranza si affacciano timidamente, mostrando la possibilità di un’alternativa, quell’alternativa che neanche il sole sembra avere ogni mattina al suo risveglio.

Un’alternativa che non deve più attendere rabbiosamente, né cercare affannosamente che venga offerta e costruita da chi gli è intorno in attesa di essere salvato.

Può essere lui, oggi, l’artefice di quella alternativa.

Può essere lui, oggi, padrone di una scelta.

Ed ecco allora riaffiorare un ricordo, l’ultimo ricordo prima di chiudere la porta dietro di sé, e lasciarsi definitivamente il passato alle spalle.

È il ricordo del piccolo Patrick che urla al padre: “No. Non voglio fare più quello che dici. Tu sei sbagliato. Nessuno dovrebbe mai fare questo male a un altro essere umano.”

Riconoscendo così, che no…non merita di continuare a farlo nemmeno a sé stesso.