Breve storia della psicoterapia della schizofrenia
I primi tentativi di sviluppare una “terapia basata sul dialogo” per la schizofrenia sono probabilmente ascrivibili alla “psicobiologia” di Adolf Meyer (1950). Meyer riteneva che il decorso delle psicosi, così come di altre patologie psichiatriche, potesse essere meglio compreso se considerato alla luce della storia di vita della persona, come “reazione funzionale all’interazione della persona con l’ambiente” (Perris, 2000 pag. 3). Harry Stack Sullivan (1962) nella sua “psicoterapia interpersonale”, applicata a pazienti con psicosi acuta ricoverati nell’ospedale di Sheppard-Pratt negli anni ’20, considerava la schizofrenia come un disturbo nella capacità del soggetto di interagire con gli altri, non su base biologica, ma come conseguenza della storia delle interazioni pregresse fra il paziente e le persone per lui significative. Frieda Fromm-Reichmann (1960) integrò le teorie di Sullivan con i concetti psicanalitici più classici, dando il via al filone della psicoterapia psicodinamica delle psicosi. Il modello psicodinamico tradizionale era, almeno nella sua forma iniziale, molto vicino alla psicanalisi: la patologia veniva considerata come la conseguenza di un conflitto psicologico fra pulsioni libidiche da un lato e desideri della realtà e della coscienza dall’altro. Tale conflitto dava luogo a delle difese contro le pulsioni libidiche, che spesso si manifestavano sottoforma di sintomi. Le differenze fra psicosi e nevrosi erano pertanto solo di tipo quantitativo e non qualitativo: i sintomi schizofrenici erano la risultante di conflitti più marcati e di difese più primitive che portavano alla rottura dell’esame di realtà. La mente del paziente schizofrenico sarebbe regredita agli stadi più precoci dello sviluppo ed il livello della fissazione determinato dai traumi psicologici passati. In base a questo modello, nonostante alcune variazioni, le strategie e le tecniche terapeutiche utilizzate per il trattamento dei pazienti psicotici erano sovrapponibili a quelle utilizzate dalla psicanalisi classica per il trattamento delle nevrosi. L’obiettivo dell’analisi era quello di sbloccare la fissazione dello sviluppo del paziente favorendo l’insight e l’elaborazione del conflitto, in modo da favorire una normale crescita emotiva.
Il passaggio dalla psicoterapia psicodinamica alla psicoterapia di supporto inizia alla fine degli anni ’50 con l’introduzione della clorpromazina nel trattamento delle psicosi. L’efficacia dei farmaci neurolettici, oltre a rendere disponibili nuove modalità di trattamento, ha favorito un cambiamento di paradigma nella concezione della schizofrenia, suggerendo un fattore somatico alla base della patologia; tale ipotesi, successivamente rafforza da studi genetici, ha dato origine al modello mentale della “diatesi-stress” secondo il quale la patologia sarebbe l’esito dell’interazione fra vulnerabilità biologica alla psicosi ed esperienze stressanti. Ricerche empiriche condotte negli anni ’60 e ’70 hanno promosso la transizione ai trattamenti biologici e all’eziologia biologica delle psicosi e, dimostrando l’indubbia efficacia delle terapie farmacologiche (a discapito delle psicoterapie di orientamento dinamico) hanno favorito la rimedicalizzazione della relazione terapeutica. (Perris, Merlo e Brenner, 2005)
“La terapia passa quindi dall’analista che lavora con il paziente, al medico che “supporta” il trattamento in modo tradizionale, dove il trattamento è rappresentato dal farmaco e la relazione terapeutica serve a questo scambio.” (Perris, Merlo e Brenner, 2005, pag. 4) Nasce la “psicoterapia di supporto” che si differenzia in maniera importante dalle sue radici psicodinamiche. Il processo psicoterapico è di natura più medica, il medico/terapeuta fornisce al paziente cure mediche e supporto e lo aiuta a trovare strategie di fronteggiamento allo stress anche tramite interventi protettivi di custodia.