di Alessandra Iannucci
Semplice raccontare l’ascesa, ma una volta in alto è facile dimenticare da dove si è partiti.
Sembra impossibile pensare che la terapia comportamentale di maggiore efficacia per il trattamento dei pazienti borderline, abbia le proprie radici all’interno di un Istituto psichiatrico. Nel voto di una giovane adolescente disregolata: “trascinata come selvaggina da cattura, in una camicia di forza nei sotterranei maleodoranti” dell’Institute of Living.
Quella giovane ragazza di 18 anni, considerata “una delle pazienti più gravi dell’ospedale” era Marsha M. Linehan.
Marsha è oggi ricercatrice, Psicologa e Psichiatra di fama internazionale che ha sviluppato la Dialectical Behavior Therapy (DBT), la terapia comportamentale di elezione per pazienti con tendenze suicidarie ed autolesive. Ancora una volta, questa donna, inclusa nel 2018, in un numero speciale della rivista Time: “I grandi scienziati. I geni che hanno trasformato il nostro mondo”, si mette a nudo, in tutta la sua autenticità e con tutte le sue fragilità. Espone con coraggio il racconto di una conciliazione dell’inconciliabile.
Una discesa all’inferno e una promessa a dio che ha guidato tutta la sua vita: uscirne per aiutare le persone più infelici del mondo. Pazienti suicidari, in cui la morte appare l’unica vera opzione. Persone che, anche nel rapporto terapeutico si sentono profondamente sbagliate quando gli si chiede di cambiare e non aiutate o abbandonate quando gli si chiede di accettare.
La sintesi perfetta di questa vita di tensione, tra tesi ed antitesi, fede e scienza, malattia mentale e cura, è la DBT, nella dialettica dinamica e continua tra obiettivi terapeutici opposti: l’accettazione di sé stessi e della propria situazione e la spinta verso il cambiamento.
I clinici dell’epoca, non avevano ancora colto l’importanza di raccogliere prove di ricerca, per poi sviluppare trattamenti basati su evidenze scientifiche. Le terapie del freddo e l’isolamento prolungato, sembravano gli unici interventi di elezione per la cura di pazienti disregolati come Marsha, che spesso, finivano per rinforzare il comportamento patologico.
Con il suo modo di pensare, diverso e fuori dagli schemi, Marsha, da paziente a ricercatrice clinica, ribalta le prescrizioni terapeutiche in auge. Esce dai confini terapeutici spazio-temporali del setting. I terapeuti non potevano mostrare la propria personalità, non suggerivano mai ai pazienti cosa fare, lei sì. Mette a punto un trattamento in cui il terapeuta potesse essere sé stesso ed insegnare ai propri pazienti delle abilità, per trasformare una veramente infelice, in una “vita degna di essere vissuta”.
Combina psicoterapia individuale, training di gruppo e lavoro di Team. Integra la pratica orientale Zen e include la mindfulness.
Ma non è solo la storia di una malattia, di una cura e di una rinascita; è la storia di una donna che si fa strada in un ambiente di soli uomini, di una scienziata, di una persona spirituale e di una madre americana. La storia di una figlia, che si sente sola in una famiglia numerosa e di una famiglia che vuole trasformare un tulipano in una rosa. Una storia di fede e perseveranza.
È un insegnamento a lasciar perdere battaglie che non si potranno vincere ed anche alcune che si potranno vincere; a non curarsi di essere nel giusto anche quando si ha ragione; a fare qualcosa che non si vorrebbe fare, solo perché è necessario.
La promessa è stata mantenuta. Il cerchio si chiude dove tutto è iniziato, all’Institute of Living, dove Marsha per la prima volta, dopo decenni di segretezza, il 18 giugno 2011, decide di rendere pubblica la propria storia, per non morire da codarda.
Un grande messaggio di speranza, “Se sono riuscita a farlo io, potete farlo anche voi”.